La guardia d’onore in alta uniforme apriva le porte maestose del Cremlino davanti a Vladimir Putin, che celebrava l’anniversario della Vittoria, e insieme il suo quinto mandato alla guida della Russia. Poco prima una porta di ferro si era chiusa per sempre davanti a Aleksej Navalny, morto a 47 anni nella colonia penale a regime speciale di Charp, oltre il Circolo polare artico, dopo 300 giorni di cella d’isolamento e una condanna infinita. I due uomini sproporzionati nel potere e nel destino sono tuttavia legati per sempre tra di loro, perché la tensione putiniana verso il dominio assoluto non ha trovato ostacoli nelle istituzioni russe, ma ha dovuto fare i conti con la testimonianza irriducibile di Navalny, la sua figura smagrita e allucinata che si alza in piedi nella tuta nera dei reclusi per ascoltare l’ultima sentenza di condanna, e invece di chinare il capo si rivolge a noi che lo stiamo guardando, pronunciando tre parole: «Non abbiate paura».
Nella luce sintetica delle cellule fotoelettriche del carcere, dietro le sbarre, lontano da tutti, Navalny è stato fino al suo ultimo giorno il nemico pubblico numero uno del Cremlino, e più ancora l’elemento di contraddizione del potere. Quel che voleva essere già dodici anni prima, quando l’ho incontrato a Mosca nella sede del movimento che spontaneamente stava nascendo attorno a lui con la rete che i “criceti” ventenni - come li chiamava Putin - chini sui computer stendevano sotto i nostri occhi, in tutto il Paese, tra uomini e donne sconosciuti, pronti a seguirlo nella sua battaglia. Moderno e nello stesso tempo pre-politico, il piffero incantatore di Navalny suonava una musica trasparente e populista, contro la corruzione, che in un sistema bloccato, col vertice onnipotente, diventava immediatamente eversiva, oltre che popolare e incandescente. Tutto è cominciato così.
Attraverso le segnalazioni che arrivavano in quel piccolo ufficio si accendeva un faro per illuminare e controllare come venivano spesi i soldi pubblici negli appalti di Stato, dove la corruzione faceva man bassa e ogni anno su 5 trilioni di rubli uno veniva rubato. Ogni denuncia ricevuta diventava pubblica sul sito, 93 avvocati indagavano e se scoprivano abusi presentavano la denuncia, mentre un portafoglio elettronico raccoglieva e rendicontava costantemente i contributi dei cittadini per sostenere la battaglia.
Per Navalny diventa naturale andare un passo più avanti. Compra un pugno di azioni di società di Stato finite agli oligarchi vicini al Cremlino, va in assemblea dopo aver letto i bilanci, fa le domande che nessuno si è mai sognato di fare, e soprattutto filma tutto e trasmette sul sito. Privo di conoscenza del web, il potere attirato nel nuovo territorio perde l’equilibrio, inciampa. «Non era abituato a questo show quotidiano contro la malversazione - mi spiegava Navalny - e io mi sono trovato all’improvviso a far politica, senza averlo deciso». Succede quando una radio gli chiede cosa pensa di Russia Unita, il partito di Putin, lui risponde che è «un partito di ladri e di malfattori», il giudizio filmato corre sul web, diventa una bomba mai sperimentata in Russia, e un certificato politico alternativo.
Mentre raccontava, Navalny si sentiva inafferrabile, quasi invulnerabile. Teneva su una sedia del suo ufficio la borsa del galeotto, con il necessario da portarsi in galera nel caso di un arresto improvviso, come spesso accadeva. Ma aveva scoperto la “quarta dimensione”, conosceva la porta magica da attraversare per raggiungerla. «Non potevamo usare nessun mezzo fisico, nessun sostegno materiale per farci propaganda, perché la polizia è abituata a sorvegliare i corpi, le case, gli scritti, gli oggetti, i comizi, le manifestazioni e i cortei. Così abbiamo rinunciato completamente a volantini, manifesti, giornali, luoghi fisici, tutte cose che gli Organi controllano facilmente. È stato naturale spostarci nello spazio virtuale della rete. È questa la quarta dimensione, dove loro non riescono a seguirci perché hanno un addestramento fisico, un obiettivo materiale, una cultura corporale. Gli siamo sfuggiti».
Ma in realtà c’è molto di più. Perché inconsapevolmente Navalny riassume nella sua immagine - imprigionata o libera - una metamorfosi storica per la Russia, vale a dire il passaggio dal dissenso all’opposizione. Dallo Zar a Cernenko, le Russie hanno conosciuto in ogni stagione l’eroismo dei dissidenti, ma anche la loro solitudine, la condanna a vivere nell’isolamento di una testimonianza individuale, sia pure di altissimo valore morale. Navalny invece è un soggetto politico vero e proprio, ha dimostrato di poter suscitare un movimento, mobilita i seguaci, è naturalmente candidato a contendere il potere. Rappresenta cioè la radicalità antisistema, dunque l’obiezione permanente, quindi l’opposizione possibile. E per incarnare tutto questo, lui è addirittura disposto a lasciare il corpo in ostaggio al regime: che mentre lo imprigiona lo sente sfuggire, e impaurito organizza due attentati contro di lui.
Tutto, anche la morte è stata trasformata da Navalny in una testimonianza estrema della sua irriducibilità nella difesa dei principi violati e dei diritti calpestati, e dell’accanimento del Cremlino nella persecuzione degli avversari, negando loro non soltanto la possibilità di partecipare alla contesa elettorale, ma addirittura lo spazio fisico, materiale, civile per agire, protestare, contestare: e infine vivere.
Perché un punto dev’essere chiaro all’opinione pubblica: Navalny è morto di opposizione.