Oylem Goylem è un vero e proprio fenomeno epocale che in qualche misura ha modificato il tessuto culturale del nostro Paese. Uno spettacolo di straordinaria tensione etica ed espressiva in cui l’eccellente affabulatore Moni Ovadia, con i bravi musicisti della sua Orchestra, sa unire esilarante comicità, pietà e protesta civile. Un cult da vedere e rivedere.
Il nostro sistema teatrale tende a macinare gli spettacoli imponendo un turnover delle produzioni che non dipende dal loro valore o qualità intrinseci, ma da un iter burocratico che impone i suoi ritmi e obbliga le compagnie a continue “novità”. Tali novità, in molti casi, di nuovo hanno solo il nome. A volte capita invece che un’opera di teatro riesca ad avere lunga vita. Quando ciò accade siamo probabilmente in presenza di un evento che va al di là del fatto messa in scena. Oylem Goylem di Moni Ovadia è sicuramente uno di questi eventi. Non si tratta di essere bello o ben recitato, non è questione di talento o di felice timing. Oylem Goylem è un vero e proprio fenomeno epocale che in qualche misura ha modificato il tessuto culturale del nostro paese. Con la forza della sua solenne semplicità e vitalità ha trapiantato, reso familiare e necessario al pubblico italiano l’humus del mondo yiddish spietatamente annientato. Eppure quel mondo, dall’abisso della sua assenza pulsante di un’energia inesausta, è ancora pienamente in grado di parlare ai cuori, alle menti ed agli animi degli uomini di oggi e di ogni generazione. Oylem Goylem ha avuto anche il merito di rivelare agli italiani Moni Ovadia, un artista originale, unico nel suo genere, non solo in Italia, ma anche in tutto il panorama europeo e Moni Ovadia spettacolo dopo spettacolo è diventato una delle presenze più amate dal pubblico di ogni età. Il suo successo transgenerazionale non è casuale, è il risultato di creazioni nate da un’idea di memoria come progetto per il futuro, per questo il suo teatro è per l’oggi e per il domani. L’arte di Moni Ovadia scaturisce sempre da una tensione etica che glorifica fragilità e alterità dell’essere umano, per questo i suoi spettacoli sono strumenti emozionali per misurarsi con le grandi sfide di un mondo che vede sfumare confini e certezze. La filosofia umoristica che anima Oylem Goylem è un potente antidoto contro violenze, intolleranze e razzismi vecchi e nuovi, è uno spettacolo che si vuole vedere e rivedere, si desidera che i nostri cari e i nostri amici che non lo hanno visto possano vederlo per condividere con noi un’esperienza unica. Per queste e molte altre ragioni abbiamo chiesto a Moni Ovadia di riprendere il suo spettacolo cult.
Lo spettacolo
La lingua, la musica, e la cultura Yiddish, quell’inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, la condizione universale dell’Ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque, sono al centro di “Oylem Goylem”. Si potrebbe dire che lo spettacolo ha la forma classica del cabaret comunemente inteso. Alterna infatti brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni che la comprovata abilità dell’intrattenitore sa rendere gustosamente vivaci. Ma la curiosità dello spettacolo sta nel fatto di essere interamente dedicato a quella parte della cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.
Moni Ovadia e i suoi musicisti danno vita a una rappresentazione basata sul ritmo, sull’autoironia, sull’alternanza continua di toni e di registri linguistici, dal canto alla musica; una grande carrellata di umorismo e chiacchiere, battute fulminanti e citazioni dotte, scherzi e una musica che fa incontrare il canto liturgico con le sonorità zingare. Uno spettacolo che “sa di steppa e retrobotteghe, di strade e sinagoghe”. Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama il “suono dell’esilio, la musica della dispersione”: in una parola della diaspora.. La Moni Ovadia Stage Orchestra si rifà alla tradizione della musica klezmer nell’incrocio di stili, nell’alternanza continua dei toni e degli umori che la pervadono, dal canto dolente e monocorde che fa rivivere il clima di preghiera della sinagoga all’esplosiva festosità di canzoni e ballate composte per le occasioni liete.
“Oylem Goylem” è un esempio di come in uno spettacolo di centoventi minuti si possono fondere umorismo e tradizione, intelligenza colta e gusto popolare in una formula linguisticamente internazionale.
Suono dell’esilio, musica della dispersione
di Moni Ovadia
Ho sempre pensato che la condizione dell’esilio oltre ad avere connotazioni di carattere socio-giuridico-esistenziali, dovesse essere riconosciuta per caratteri “organolettici” e fra questi, di mio particolare interesse: il suono. Un mirabile contenuto ad una sua possibile definizione, mi si era presentato spontaneamente durante un viaggio in traghetto per le isole Eolie. Ero appoggiato al parapetto dell’imbarcazione e come si usa guardavo il mare quando mi giunge all’orecchio un sospiro, di fianco a me era sopraggiunto un signore con il viso solcato da quelle rughe d’espressione prodotte dal duro lavoro all’aria aperta e cogliendo la mia disposizione ad ascoltarlo fa: “What a peccato, once the mare was very polito”. Era un emigrato che tornava dall’Australia. Eccolo un suono dall’esilio, il disfarsi della propria lingua e del proprio dialettiche non basta più a se stesso che contaminandosi con un’altra lingua perde il senso dei propri confini che non esistono più e della precisione del proprio utilizzo legato ad una cultura povera magari, ma dotata di una forte identità. Ma questo, pur con tutto il suo significato anche politico mantiene il suo livello di chiarezza: c’è un luogo dal quale si proviene e un luogo nel quale si è tentato di costruire una nuova vita, un qua, un là. Un’altra dimensione dell’esilio si manifesta in tutto il suo paradosso quando entriamo nel “lontano da dove” o nel “la somma degli angoli di cui ho nostalgia è uguale a 360 gradi”. Laddove la diaspora introiettata diviene inelaborabile e sviluppa pressioni emotivo-cerebrali vertiginose.
La condizione di appartenenza nazionale certa, e questo è il mio caso, non muta i dati della questione, perché l’immaginario diasporico costituito da una miscela di immaginario vero e proprio e da un residuo di realtà resiste attraverso generazioni, alimenta e si compiace del sentimento della precarietà e di una qualche “eteroesistenza”.
So che i miei ascendenti hanno attraversato paesi, nazioni e perfino imperi e le tracce di questi passaggi erano ancora ben visibili nei miei genitori, o mescolate fra di loro e fra queste in particolare lo spagnolo giudaico (mescolanza di casigliano del ‘500 con parole arabe, turche, italiane e altro) possedeva caratteri espressivi e culturali che mi hanno segnato profondamente.
Con una sorta di coazione a ripetere “postuma” mi sento pulsionalmente attratto a frequentare le lingue del vagabondaggio reale e anche attraverso ogni possibile pastiche linguistico a sognare di costruire vagabondaggi immaginari. E personalmente sono quasi impossibilitato a “sentire” una coltura se non nel suo contesto linguistico-sonoro.
La parola di ogni lingua contiene in sé una musicalità originaria portatrice di segni ineffabili perciò non discernibili che conducono ad una contabilità unica. Considerando il canto come prima istanza della musica, ritengo centrale in quella ebraica il krekhz, il lamento del cantore della sinagoga, una melopea vocalizzata su una sillaba o su una sola vocale, dal carattere insistito ed ossessivo, che quando, per ragioni “gastronomiche” viene accompagnato dall’organo produce una torsione armonica occidente versus oriente singolarmente emozionante.
Inscindibilmente legato alla condizione della dispersione, non necessariamente definita da una condizione materiale, quanto piuttosto, da una condizione dello spirito, il krekhz eleva la sua provocazione, forse come protesta utopica ed impotente per richiamare l’Eterno dal “Suo Esilio”, supremo paradigma della diaspora spirituale dell’uomo. La musica Klezmer, il patrimonio dei musicisti ebrei dell’Europa orientale, costituita in prevalenza da una mescolanza per sincretismo delle culture musicali tradizionali, popolari e popolaresche di quel vasto arco territoriale comprendente impero zarista e impero austro-ungarico e arricchitasi dal fertile interscambio con l’altra grande diaspora europea, quella del popolo zingaro, deve comunque il suo carattere originale a quel sottile filo intessuto nelle sue fibre che è il melisma del canto liturgico e del nigun, melodia estatico religiosa dei Chassidim (devoti).